Già da qualche giorno le squadre sono arrivate a Orlando e hanno ripreso gli allenamenti in vista della palla a due della prima partita nella “bolla” di Orlando. Un grandissimo sollievo per tutti noi appassionati, ma niente in confronto a quello che hanno provato nel quartier generale della NBA.
Questa ripresa, atipica e surreale quanto si vuole, rappresenta una boccata d’ossigeno indispensabile per la tenuta economico-finanziario del sistema. Una valutazione dell’impatto dello stop seguito al COVID-19 parla di una perdita di oltre 500 milioni di dollari solo per i mancati incassi al botteghino. A questo, non va dimenticato, si sommano le perdite legate alla querelle con la Cina innescata dalle parole di Daryl Morey (altri 400 milioni circa). Per questo, le preoccupazioni non sono certo finite con la ripresa del campionato all’orizzonte. Lo sguardo sta già volgendosi alla prossima stagione.
La situazione è così instabile che possiamo solo cercare d’indovinare cosa accadrà la prossima stagione. La realtà è che nessuna squadra chiuderà in attivo. La domanda a cui rispondere è a quanto ammonterà la perdita.
Questa la confessione anonima di un alto dirigente di una delle trenta franchigie NBA. Una situazione delicatissima causata da un evento eccezionale che ha messo a grave rischio l’equilibrio creato dal Contratto Collettivo. Un accordo che, come ha specificato Silver, non è stato costruito per reggere agli effetti di una pandemia globale, e quindi non prevede nessun meccanismo per adeguare il Salary Cap a scenari così incerti ed estremi, con le entrate complessive che, nel 2021, potrebbero oscillare da 6 a 10 miliardi di dollari. Una forbice troppo larga, anche per una Lega super-organizzata come quella guidata da Silver.
Ecco spiegato il perché la NBA stia già valutando alcuni strumenti per permettere alle franchigie di allineare i “payroll” alle minori entrate, così da assicurare una parvenza di sostenibilità alle franchigie investite da questo cataclisma. Le prime indiscrezioni riportano due principali interventi. Il primo riguarderebbe la possibilità concessa alle franchigie di non dover obbligatoriamente raggiungere la soglia minima del Salary Cap. Un’opzione che, nel recente passato, era servita solo per convincere lo storicamente “parsimonioso” Donald Sterling a investire nei Clippers almeno il minimo indispensabile, ma che in questo contesto potrebbe consentire a tante franchigie di attendere almeno un anno prima di investire in contratti onerosi e risparmiare qualche milione di dollari in stipendi. La seconda ipotesi al vaglio, invece, fa tornare indietro di qualche anno. Sembra che allo studio ci sia la possibilità di replicare l’esperimento della “Amnesty Clause”, la possibilità cioè di tagliare un giocatore e vedere il suo stipendio eliminato dal computo del Cap. Una misura che non andrebbe a ledere il diritto alla retribuzione del giocatore, ma che potrebbe far risparmiare i tanti dollari della Luxury Tax.
Un’opzione che, non solo per le franchigie dei mercati minori, rappresenterebbe una scialuppa di salvataggio essenziale. Solo per fare un esempio, Philadelphia quest’anno sforerà di 15 milioni la soglia fissata dalla NBA per il pagamento della “Tassa di Lusso”, e sarà costretta a pagare oltre 28 milioni di dollari di tassa. Il prossimo anno, con il Cap previsto molto in ribasso, questo importo potrebbe salire vertiginosamente e i Sixers potrebbero pensare di ridurre il loro impegno finanziario tagliando Al Horford e il sostanzioso contratto da 109 milioni, soprattutto se l’attenzione della dirigenza si soffermerà sui soli 12 punti e 7 rimbalzi di media dell’ex Celtics.
Altre situazioni interessanti potrebbero verificarsi a Cleveland (Kevin Love), Washington (John Wall) e Detroit (Blake Griffin).
Solo idee per il momento, che potrebbero essere affiancate da altre soluzioni (anche più incisive) una volta che della questione sarà interessata la NBPA (il “sindacato” dei giocatori), perché, affinché il “banco non salti”, saranno necessari anche l’impegno e i sacrifici dei veri attori di questo show chiamato NBA.