Sono passati quasi cinque mesi dal fatidico 11 marzo, giorno in cui l’NBA annunciò che Rudy Gobert, centro degli Utah Jazz, risultò positivo al test per il Coronavirus. La sospensione della regular season fu rapida e dolorosa, mentre gli Stati Uniti cominciavano a fare i conti con quella che oggi si rivela la peggior crisi sociale del nuovo Millennio. Se gli attentati alle Torri Gemelle avevano ottenuto il risultato di unire le diverse anime di fronte al terrorismo, gli ultimi mesi hanno invece rivelato – e allargato – una profonda spaccatura all’interno della società. I fatti di Minneapolis culminati nella morte del quarantaseienne George Floyd ed il suo disperato “non riesco a respirare” sono stati la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo ed hanno rivelato quanto ancora si debba lavorare per arrivare all’uguaglianza. E, a peggiorare la situazione, l’inferocirsi di una pandemia che è stata trattata con superficialità fino a quando il numero delle vittime – che a larghi passi sta raggiungendo quota 160,000 – non ha costretto gli organi di governo alla marcia indietro.
L’NBA nella sua “bolla” di Orlando potrà anche ambire a creare un ambiente “a prova di virus”, ma ciò che si sprigiona al Walt Disney Resort sta comunque lasciando il segno su un’opinione pubblica quanto mai polarizzata e rigidamente abbarbicata alle proprie posizioni. Da una parte le critiche ad atleti e allenatori che si inginocchiavano durante l’esecuzione dell’inno nazionale statunitense, dall’altra le censure proprio allo “Star-Spangled Banner” (che ad un certo punto recita un colpevole “nessun rifugio potrebbe salvare il mercenario e lo schiavo dal terrore della fuga o dall’oscurità della tomba”) come a ogni ostacolo al processo di parificazione dei diritti civili. Gregg Popovich, pur rimanendo sull’attenti durante l’esecuzione di “Star-Spangled Banner”, ha pesantemente attaccato il razzismo definendolo “il peccato nazionale”, mentre si augurava che la ripresa della stagione del basket potesse rappresentare non solo un fatto sportivo ma anche un momento di riflessione e di cambiamento sociale. Il coach degli Spurs indossava una maschera, invitando tacitamente a prendere ogni precauzione per evitare che il Coronavirus potesse continuare a mietere vittime in uno dei paesi che hanno mostrato maggior difficoltà nella gestione della pandemia.
Nel frattempo sui social media si è scatenata la rabbia di molti tifosi che non hanno accettato il supporto dell’NBA al movimento “Black Lives Matter”. Sia le scritte sul campo che la sostituzione dei nomi sulle canotte di gioco con slogan legati alla lotta per i Diritti Civili hanno creato parecchio malumore tra le frangie conservatrici. Le parole più gettonate dagli atleti sono state ovviamente “Black Lives Matter” e “Equality”, mentre particolare simpatia e curiosità sono state destate dai messaggi sociali stampati sulle maglie del serbo Jusuf Nurkić (“Ravnopravnost”), dello sloveno Luka Dončić (“Enakopravnost”), del tedesco Max Kleber (“Gleichberechtigung”) e del lettone Kristaps Porziņģis (“Vienlīdzība”): in tutti e quattro i casi la traduzione è “Uguaglianza”.
I tre azzurri regalano un tocco di italianità: Marco Belinelli e Nicolò Melli con il loro (gettonatissimo) “Uguaglianza” e Danilo Gallinari con “Giustizia”, ma la palma del più esotico va indubbiamente a Steven Adams, centro australiano degli Oklahoma City Thunder, che si è fatto stampare uno splendido “Kia Kaha” la cui traduzione dalla lingua Maori è più o meno “Sii Forte” ma che ha anche una connotazione di “Potere alla Gente”.
A dimostrazione che la stupidità dei “talebani” è trasversale, alcuni fan del movimento “Black Lives Matter” hanno fortemente criticato Gordon Hayward dopo che l’ala dei Boston Celtics aveva optato per lo slogan “Education Reform”. Qualche idiota è arrivato al punto di etichettare Hayward come “razzista”, dimenticando che una delle cause principali della disparità sociale così come del razzismo risiedono proprio nella disuguaglianza del livello di scolarizzazione. La squadra biancoverde ha prontamente preso le parti del suo atleta ricordando i nomi dei dieci cestisti neri che hanno scelto lo stesso messaggio, da Garrett Temple ai fratelli Marcus e Markieff Morris, da CJ McCollum a DeMar DeRozan, da Kent Bazemore a Kyle Lowry. Se la frase è la stessa utilizzata da diversi atleti afroamericani, come si può accusare Hayward di razzismo? Come ha dichiarato Solomon Hill (uno degli 11 “razzisti” che ha scelto il motto “Education Reform”), “quando mandiamo i nostri figli in scuole fatiscenti, con insegnanti sottopagati e con risorse limitate, gettiamo le basi che li porteranno al fallimento”.
Ma è evidente che l’NBA, con il 75% di atleti afroamericani a proporre il loro prodotto ad un pubblico che per il 73% è bianco, non può esimersi dal mettere il dito sulla piaga, anche se ciò potrebbe comportare un calo di interesse (e quindi nei fatturati già provati dalla mancanza di pubblico). Ma agire in questo modo fa parte del DNA della lega che storicamente è sempre stata all’avanguardia nella lotta per i diritti civili. E in un momento in cui il paese si trova in grave difficoltà, tra Covid-19, “Black Lives Matter” e economia in ribasso, ci vuole del coraggio a sottolineare il fallimento di una nazione che credeva di aver superato i problemi legati alla razza e invece si accorge che le vecchie ferite sono ancora aperte.