
Chissà: se il tiro decisivo di quella fatidica gara-7 contro i Toronto Raptors lo avesse segnato Jimmy Butler, magari oggi staremmo parlando dei Philadelphia 76ers come dei campioni NBA in carica. Invece quel canestro lo ha firmato Kawhi Leonard, e oggi quello dei Sixers assomiglia molto a un progetto fallimentare.
La squadra di Brett Brown si presentava ai nastri di partenza con una gran voglia di riscattare le lacrime seguite alla prodezza di Leonard. In estate, dalla cessione tramite sign-and-trade di Butler, la dirigenza aveva ottenuto Josh Richardson, poi aveva completato un altisonante quintetto con il rinnovo di Tobias Harris (contratto da 180 milioni di dollari in cinque stagioni) e l’acquisizione del veterano Al Horford (quadriennale da 97 milioni). Sono bastati pochi mesi per trovare qualche falla nell’ultima fase di ‘The Process’, quella che avrebbe dovuto portare i Sixers al titolo. Dei Sixers ottimi in casa, ma pessimi in trasferta. A tratti eccezionali in difesa, ma spesso mediocri in attacco. Capaci di sconfiggere Milwaukee Bucks, Boston Celtics e Miami Heat, ma anche di perdere nettamente contro Orlando Magic e Brooklyn Nets.
Con l’avanzare della stagione, si sono fatte largo due domande: e se Phila avesse corso troppo, rinunciando di colpo a una crescita graduale (l’anno precedente, gli innesti di Butler e Harris avevano comportato il sacrificio di giovani e scelte future) per provare a vincere subito? E se Ben Simmons e Joel Embiid non fossero adatti a giocare nella stessa squadra? Quest’ultimo interrogativo è sorto notando le differenze di rendimento del regista australiano con e senza il centro camerunese al suo fianco. In diverse occasioni, mentre Embiid metteva a ferro e fuoco le difese schierate con le sue straordinarie doti offensive, Simmons (che nella propria metà campo ha sfornato prestazioni da All-Defensive First Team) è apparso spaesato, inutile, quasi dannoso, viste le proverbiali difficoltà al tiro. Per contro, quando il colosso si è dovuto fermare per un infortunio al dito, il numero 25 si è rivelato il motore perfetto di un attacco più dinamico e versatile. Pochi giorni dopo la ripartenza, in quel di Orlando, Simmons è stato messo definitivamente k.o. da un problema al ginocchio sinistro, che ha reso necessaria un’operazione. Il dubbio si è improvvisamente dissolto: i Sixers, nei playoff 2020, sarebbero stati la squadra di Embiid.
L’esperimento non è andato benissimo. Il camerunese ha messo a referto cifre notevoli (30 punti e 12.3 rimbalzi di media), ma la sua squadra è stata spazzata via senza pietà al primo turno dai Boston Celtics, pur privi di Gordon Hayward e con Kemba Walker in condizioni non perfette. Sebbene il tabellino dipinga Embiid come un predicatore nel deserto, Il suo reale impatto è ben mascherato dalle cifre. Il numero 21 è stato più incostante che mai, alternando periodi da dominatore a molti altri da spettatore ben pagato. Naturalmente non gli si possono addossare tutte le colpe, così come non si può limitare l’analisi della serie a “Mancava Simmons”, oppure a “Phila ha sbagliato a passare dietro ai blocchi”. I Sixers non si sono dimostrati all’altezza dei loro avversari, in tutto e per tutto. Hanno difeso male e attaccato peggio, sono apparsi molli e privi di idee. Jayson Tatum e compagni (da tenere d’occhio con molta attenzione in chiave Finals) hanno banchettato sui resti di un gruppo ormai rassegnato al baratro.
Messo agli annali uno 0-4 che non ammette repliche, si è aperto il processo per direttissima a questi Sixers. La prima condanna è arrivata per coach Brown, sollevato dal suo incarico dopo sette anni di ‘Process’, trascorsi a prendere ordini da tre diversi general manager (Sam Hinkie, Bryan Colangelo ed Elton Brand) e a gestire uno sterminato e variopinto elenco di giocatori. Un periodo caratterizzato prima da infinite sconfitte, poi da grandi speranze, che oggi rischiano di diventare mere illusioni. Basterà una nuova guida tecnica a risolvere la crisi d’identità? Con un monte salari ingolfato dal costoso e inconcludente starting five (motivo per cui anche il GM Elton Brand è finito sul banco degli imputati), i margini di manovra sono piuttosto risicati. A meno che non si decida di privarsi di una delle due stelle.
La vera questione non è se Embiid e Simmons possano coesistere o meno; con giocatori di quel calibro si può sempre trovare un compromesso (James Harden e Chris Paul, al primo anno insieme, non sono andati malissimo), bensì: non è che, impostando la squadra su uno solo tra questi e plasmando il resto del gruppo a sua esclusiva immagine e somiglianza, si possano massimizzare i risultati? Seguendo questa filosofia, franchigie come Milwaukee Bucks e Houston Rockets non hanno ancora vinto il titolo, ma almeno sanno con certezza chi sono. La storia recente insegna che a fare strada sono le squadre con grandi leader o quelle con una solida struttura dietro ai giocatori di punta. I Sixers, al momento, non hanno niente di tutto ciò. Per ottenerlo, potrebbe servire un altro tipo di ‘Process’, forse più lungo e complicato di quello targato Sam Hinkie.