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      Sergio Tavcar: “Ho tirato giù tutta una serie di icone religliose dopo la vittoria dell’Italia buttata nel cesso…”

      Redazione SuperBasket by Redazione SuperBasket
      17 Settembre 2022
      in Estero, Nazionali, UOMINI
      0
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      Fonte: sergiotavcar.com

      Scusate il ritardo, ma dovevo in qualche modo metabolizzare una delle giornate più deludenti da me mai vissute in campo sportivo. Ad aggiungere la beffa al danno, mentre la Slovenia, dopo essere andata avanti di cinque rimontando da meno 23, riusciva a incasinarsi di nuovo perdendo una partita che mai, in nessun tipo di universo, per quante sliding doors possano esserci, avrebbe dovuto mai perdere, in contemporanea la Juve andava sotto contro il Benfica in casa mandando effettivamente a escort tutta la campagna europea di questa stagione. E’ stato troppo, per cui, per instupidirmi, ho guardato tutta la serie più romantica delle puntate di Castle che ho registrate, andando poi a dormire in stato di semi-incoscienza.

      E dire che già nel pomeriggio, senza avere il minimo sentore che il peggio doveva appena venire, avevo  tirato giù tutta una serie di icone religiose dopo che l’Italia aveva buttato nel cesso una ormai acquisita vittoria contro i pollastri di Francia. E il tutto nella più odiosa sequenza di eventi che poteva succedere.

      Più due, 13 secondi alla fine, due tiri liberi per l’artefice massimo della vittoria, quello che con due impossibili tiri da tre nel momento più chiave possibile aveva messo l’Italia nella situazione di partita vinta, l’eroe li sbaglia entrambi (succede, assai raramente, ma succede), si va ai supplementari, si perde e l’eroe diventa il principale colpevole della sconfitta. Dal punto di vista sportivo è l’ingiustizia massima che possa accadere, quella che nella storia andrà la cosa che non dovrebbe mai entrare, mentre quanto successo nei 39 minuti e 47 secondi antecedenti nessuno lo ricorderà più. E’ tanto ingiusto che mi produce una rabbia sommamente sorda proprio perché so che è successo senza che si possa in qualche modo rimediare. Sarà sempre così e basta.

      E dall’altra parte in semifinale (scrivo prima della partita contro la Polonia, ma penso che dire “finale” non sarebbe particolarmente azzardato) ci arriva una squadraccia di polli senza testa, dal grande fisico e dal cervello molto limitato, guidata (?) malissimo in panchina con cambi e rotazioni totalmente incomprensibili che danno l’idea di cose fatte a naso (o caso, fate voi), a pene di segugio, direbbe Aldo Giordani, squadra che è un insulto al basket inteso come arte, che ha avuto in due partite di fila le terga crivellate nello stesso identico modo, spargendo sul tiratore avversario in lunetta tutta una serie di maledizioni voodoo pescate nelle più recondite eredità ancestrali dei suoi giocatori di origini afro-caraibiche, maledizioni che hanno evidentemente funzionato alla grande.

      L’Italia ha giocato ancora una volta molto bene, aspettando che i francesi, come era scritto nelle cose, prima o poi andassero in bambola, cosa successa puntualmente nell’ultimo quarto, e l’unica cosa che si può imputarle è di non aver affondato il coltello nella piaga nel momento chiave. Certo, i francesi hanno finalmente messo in panca il ridicolo Albicy, uno capace di palleggiarsi sul piede da solo lanciando in contropiede uno contro zero Mannion in un momento importantissimo, sostituendolo con Heurtel, un play vero, limitato quanto si vuole, ma che almeno segna se è lasciato solo, ma proprio in quei momenti, secondo me, la panchina italiana ha fatto un piccolo, ma fondamentale errore. Ovviamente guardavo la partita con in sottofondo solamente i suoni di ambiente facendomi la telecronaca da solo (volenti o nolenti, ho una certa qual esperienza in questo campo) e continuavo a gridare: “Dai, togli Mannion e rimetti Spissu, cosa aspetti! Serve qualcuno che segni da fuori e non uno che tenti di fare il fenomeno proprio quando serve invece calma, gesso e istinto omicida”, cosa che è successa, secondo me, con due minuti circa di ritardo, quando i francesi avevano già recuperato un minimo di senno. Poi sembrava che Fontecchio avesse rimesso le cose a posto, ma evidentemente non è bastato. Veramente un grosso peccato, perché Melli meritava di giocare almeno la semifinale. E’ stato ancora una volta fenomenale. Scusate, ma potreste recuperare i miei post di una decina di anni fa quando andavo dicendo che era lui di gran lunga il più forte della sua generazione e che era un vero peccato che marcisse sulla panchina di Milano? E quando scrissi che doveva andare a Bamberg a piedi, perché solo così la sua carriera poteva decollare?

      Certo che la storia di Melli, Fontecchio e anche Polonara (e perché no, Spissu, la sua stagione a Kazan spiega perfettamente come mai, quando le cose diventano dure lui gioca, e sia contro la Serbia che contro la Francia ha giocato due partite incredibili per coraggio, intraprendenza e autorità facendo tutto il possibile, se non di più) è tanto istruttiva quanto inquietante. Se sei giovane e giochi in Italia rimani un mezzo giocatore. Se hai talento e esci a giocare all’estero diventi di colpo quello che avresti potuto tranquillamente diventare anche in Italia. Se c’è riuscito Michele Vitali allora veramente lo può fare chiunque. E, di converso, vedi il caso di Spagnolo, se quando ritorni a giocare in Italia sparisci da ogni radar dopo che a livello di bambino, grazie all’istruzione impartitagli in Spagna, sembrava, e lo era a tutti gli effetti, un fenomeno, tutto questo qualcosa vorrà pur dire.

      Secondo me tutto ciò vuol dire semplicemente che il sistema italiano di reclutamento, educazione, istruzione, allenamento e infine di sfruttamento delle risorse provenienti dal vivaio fa totale schifo dalle fondamenta al tetto. Ho scritto più volte cosa penso dell’insegnamento di base che dovrebbe essere prima di tutto educazione nel senso lato di assunzione di responsabilità personali, e non etero dirette da genitori o pseudo istruttori vari, di percezione dell’importanza del concetto di squadra e di collaborazione e infine del divertimento che dovrebbe essere associato a ogni attività agonistica, unico vero motore che nei ragazzi stimola la creatività e l’ingegno. E in cima a ciò arriva l’agonismo, che però deve essere sano, competitivo, meritocratico, cioè esattamente com’è se i ragazzi vengono lasciati da soli a giocare per strada, come succedeva in passato, senza l’assillo di obiettivi malati che i ragazzi in realtà non comprendono neppure. In Italia si fa esattamente il contrario, e ciò con la pervicace convinzione che sia l’unico sistema giusto, mentre è esattamente questo che fa sì che tantissimi ragazzi abbandonino precocemente il basket. Poi c’è la pletora di campionati giovanili che non servono esattamente a niente se non a soddisfare l’ego psicotico di allenatori e genitori, alla ricerca del risultato a ogni costo, e per far ciò si pompa il fenomeno di turno (come si sa il fenomeno bambino rimane sempre un bagonghi inutile quando cresce quel metro e 20 che natura gli ha destinato) trascurando tutti gli altri, anche quelli che magari sono imbranati da bambini, ma che poi cresceranno oltre i due metri e intanto saranno magari passati già alla pallavolo (sport perfetto per i giovanissimi futuri lunghi, gente normalmente timida e introversa, dunque materiale perfetto per uno sport meccanico e ripetitivo).

      E così via. Una volta passate le terribili forche caudine delle tremende stagioni giovanili i pochi rimasti (normalmente gente che ha avuto l’istruzione di base in qualche squadra di provincia, o sono praticamente autodidatti tipo Pippo Ricci, le grandi squadre hanno allevato negli ultimi anni zero talenti via zero) sarebbero pronti a giocare con i grandi. Gli anni passati a imparare praticamente niente di quello che è utile a livello maggiore fanno però sì che siano confinati in panchina a fare il numero previsto dai cervellotici e totalmente astratti regolamenti federali che in teoria dovrebbero tutelare gli italiani in squadra, ma che sono in realtà meraviglioso terreno cavilloso di pascolo di procuratori e agenti vari che nella pletora di regole arzigogolate ci sguazzano alla grande. Del resto è il loro mestiere. E dunque i giovani continuano a fare panchina, anche quando sono palesemente più forti dei vari brocchi stranieri che i procuratori, dopo opportuna pompata mediatica, appioppano ai presidenti.

      Per questo quelli che vanno all’estero e si trovano in un panorama sano, dove ai giovani si insegnano le cose giuste nell’ambiente anche mediatico giusto e, se sono forti, giocano, e possono finalmente sbocciare in tutto il loro potenziale. Basta chiedere a Melli e compagnia come si sentiti quando sono usciti dall’Italia e hanno potuto finalmente respirare a pieni polmoni.

      Ma non è tutto qui. C’è un altro lato del reclutamento che è stato totalmente accantonato, perché richiede fatica, anche fisica. Sarebbe sempre ora che in qualche società uno scopritore di talenti prenda in mano un alpenstock e cominci a battere le più remote valli alpine e appenniniche alla ricerca di lunghi da coltivare e allevare. A cercare insomma i vari Serafini, Vendemini e gente simile che veniva cercata, e trovata, tempo fa. E poi c’è sempre l’inventiva: come quella del mio amico Stibiel che scoprì Renzo Vecchiato garantendo il posto nel primo quintetto della sua squadra cadetti a chi gli avesse portato uno che superasse i due metri, e uno dei suoi ragazzi glielo trovò per caso in tram, oppure quella dell’allenatore di Laško che lesse in un giornale di un gigantesco poliziotto fuori servizio che a Sarajevo aveva da solo sedato a suon di sganassoni una rissa da bar, per cui gli mandò una lettera chiedendogli scherzosamente se magari aveva un figlio da instradare nel basket, e questi, avendolo, gli mandò in Slovenia Jusuf Nurkić. Insomma, quello che voglio dire è che a volte bisogna anche muovere materialmente il culo.

      Dovrei parlare ora della Slovenia, ma mi riesce difficile, per cui dico solo che la sconfitta può spiegarsi in un solo modo, che con lo sport nulla ha a che fare. Era forse la prima volta nella storia che la Slovenia partiva favorita in qualcosa in un gioco di squadra (negli sport singoli c’è già arrivata, con i ciclisti, con la Garnbret, la Trstenjak, Tim Gajser eccetera) e si sentiva forte. Per cui ha preso sotto gamba, magari senza rendersene conto, i match che reputava facili, e infatti con la Bosnia ha perso, con il Belgio era sotto all’inizio dell’ultimo quarto e infine contro la Polonia ha di nuovo addirittura perso. Guarda caso, quando ha cominciato a giocare, magari male, ma insomma ci ha dato dentro, ha recuperato in 15 minuti da meno 23 a più 5, poi si è nuovamente seduta e ha perso. A dire il vero nel finale ci sarebbero ampie scusanti fisiche: l’assenza dell’infortunato Zoran Dragić, giocatore fondamentale in difesa, il fatto che Dončić ha giocato tutta la partita sotto infiltrazione antidolorifica (ha preso una puntura anche nell’intervallo) per una storta patita in allenamento, tutto ciò, unito allo sforzo fatto sotto tensione per recuperare, ha fatto sì che arrivasse nel finale senza né fiato né lucidità.  Il problema però è che mai avrebbe dovuto andare sotto di 23 e questa è una cosa assolutamente inspiegabile se non ricorrendo a spiegazioni che vanno oltre lo sport.

      La Slovenia è un fazzoletto di terra, piccola quanto si vuole, ma situata in una zona strategicamente fondamentale per l’Europa, cerniera ineludibile per ogni traffico inter-europeo sia da sud-ovest verso est che da nord-ovest verso sud e l’oriente. E dunque nella storia è stata ferocemente contesa un po’ da tutti e tutti volevano possedere quel lembo di terra. A ovest gli italiani, a nord i tedeschi, a est gli ungheresi, insomma, come ha detto anche uno storico linguista, sarebbe stato solo normale che nella storia avesse fatto la fine dell’Irlanda o del Galles, dimenticando la propria lingua d’origine per acquisire quella dei dominatori. E invece non l’ha fatto. Lo sloveno è stato ancora e comunque parlato nei secoli (12) passati sotto dominio straniero e si è conservato, fra l’altro prezioso scrigno di conoscenza per ogni slavista, visto che è la lingua che meno si è allontanata dallo slavo ecclesiastico medievale. Il che significa che, malgrado gli sforzi dei dominatori di piegare questa gente (ultimi Mussolini di: “Qui si parla solo italiano”, o Hitler di: “Rendetemi nuovamente tedesca questa regione”), ha resistito caparbiamente. Dunque gli sloveni sono gente molto, ma molto tosta. Gente che ha dovuto sempre sgobbare sotto giogo altrui per sopravvivere, ma che lo ha fatto con dignità senza farsi mai assimilare da nessuno (lasciamo stare i carinziani, loro sono una storia particolare). Agli sloveni dunque nulla è stato mai regalato. Se vorranno avere qualcosa dovranno sempre sgobbare più e meglio degli altri. Quando se ne dimenticano succede quello che è successo a Berlino.

      Ora forza Deutschland, o in sottordine Spagna. A proposito la Spagna è un perfetto esempio di cosa voglia dire scuola di basket. Non sono fenomeni, ma giocano, dunque c’è scuola alle loro spalle. Altra dimostrazione di quanto dicevo prima. Devo confessare che, se vincesse la Francia, avrei netta la sensazione che il basket sia ormai morto, o comunque agonizzante, mentre se vincesse la Germania, il paese che meglio ha coltivato il basket in questi ultimi anni, tanto che ormai lì non c’è più paragone fra popolarità del basket rispetto alla pallamano, con il primo che in pochi decenni ha totalmente ribaltato le proporzioni, sarei contento, perché vorrebbe dire che, quando il basket è sano, sono sani anche i risultati. Del resto che Melli sia sbocciato a Bamberg e Fontecchio a Berlino qualcosa vorrà pur dire.

      Tags: Europeo 2022Sergio Tavcar
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      Superbasket.it è una testata registrata presso il Tribunale di Milano, numero 103 del 14 marzo 2017. Direttore Responsabile Giampiero Hruby [email protected]