Non credo ai viaggi della speranza, men che meno ai pellegrinaggi sportivi. Come ritenevo assurdo illo tempore che una delegazione federale andasse a genuflettersi di fronte ai “big” della NBA quali Bargnani, Gallinari, Belinelli, ecc., trovo altrettanto stucchevole quello che andrà a fare Pozzecco alla corte di Paolo Banchero.
Il mio ragionamento è scevro da romanticismi inutili, capisco benissimo che oggi un giocatore NBA è un impresario e quindi fa il bene della sua azienda unipersonale; capisco ancor meglio che l’argent (il motore dell’economia) arriva dalla franchigia o squadra di club (per gli esponenti militanti nell’Eurolega). Posta questa premessa, derubricare un rifiuto alla Nazionale da parte di un atleta è esercizio contemporaneo divenuto prassi (o quasi), purtroppo.
Quello che non riesco a capire è il senso recondito di una chiacchierata de visu negli States. Cosa c’è da ricamare rispetto ad una chiamata in Nazionale? Quali profondi ragionamenti devono essere instillati rispetto alla storia che la maglia azzurra si porta appresso (protagonisti compresi)? Serve effettivamente che un docente di empatia come il Poz debba “elemosinare” trasporto per qualcosa che è infinitamente unico? Considero questa procedura uno svilimento per il movimento, preferisco pensare che ogni singolo individuo espliciti la forma etica e morale senza “aiuti” esterni, segua cioè genuinamente il percorso scelto. Anche perché, l’abbiamo visto con tinte forti, una generazione di “coccolati” non ha prodotto quello che invece sono stati in grado di fare “normali” professionisti senza l’aura onnipotente del marchio NBA appresso.
Reputo che la vicenda Nazionale Italiana di basket possa essere circoscritta a pochi passaggi, muti: convocazione, emozione da condividere con chi ti è vicino, desiderio di lasciare un segno nella storia al proprio passaggio. Punto.
Raffaele Baldini